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Antonietta

Orsatti

Casacanditella (CH), 1940

Antonietta Orsatti nasce a Casacanditella (Chieti) nel 1940. Si avvicina all’arte da autodidatta, per poi seguire i corsi di ceramica diretti da Tommaso Cascella all’Istituto d’Arte di Chieti. Si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Roma dove studia scultura con Pericle Fazzini e Goffredo Verginelli. Contemporaneamente frequenta la Scuola di Arti decorative di via San Giacomo dove studia affresco. Nel 1967 si diploma con una tesi sullo scalpellino Felice Antonio Giuliante (1885-1961). Nello stesso anno si sposa e torna a vivere stabilmente in Abruzzo, dove insegna disegno e storia dell’arte nelle scuole superiori. Da allora lavora in solitudine, abbandonando quasi del tutto l’attività espositiva.
Elabora un originale procedimento di lavorazione dei mattoni forati che, incisi e modellati ancora freschi e successivamente cotti in fornace, diventano supporto espressivo per le sue storie. Sulle tele dipinge in encausto episodi, figure legate dalla geometria associativa dei suoi sogni.
Negli anni più recenti si dedica al disegno e alla scultura per la quale utilizza cartone di recupero.
Dal 2021 riprende a scolpire la pietra, ultimando un ciclo di altorilievi.
In 2024 tiene la sua prima personale a Roma nello spazio indipendente Lettera_E a cura di Paolo Cortese.

 

 

Come nelle fasi della civilizzazione, dopo l’età della pietra e quella del foratino, Antonietta raggiunta la piena maturità – quella che qualcuno chiamerebbe “vecchiaia” – entra nella mirabolante “età del cartone”, e compie un salto di qualità, quasi avesse ormai eliminato tutte le scorie dell’accademismo e scoperto la propria reale identità.
Orsatti raccoglie ciò che è scartato, il cartone da imballaggio di seconda mano, i materiali poveri che il mondo non vede più, dopo aver scavato per anni la pietra della Maiella e, per ultime, le lastre tombali donatele, se ho capito bene, da un sacerdote, molti anni prima.
Esemplare, per comprendere questo percorso, il ciclo di disegni che esegue sui rotoli di carta igienica (quasi impossibili da conservare o restaurare), o le sculture realizzate con l’anima di cartone degli stessi rotoli. Un oggetto così umile che non ha diritto neanche a un nome proprio, e che può essere variamente denominato come “rotolino”, o addirittura “panfuretto”…
Nelle sue mani, ogni materiale si trasforma e si carica di significato.
I cartoni “usati” (preferiti a quelli da imballaggio), magari quelli che contengono le bottiglie, diventano così teatri dell’assurdo, piccole scenografie che evocano storie misteriose e mondi nascosti.

_A.Accatino