Nedda Guidi

Nedda Guidi (Gubbio 1927 - Roma 2015)

Il materiale ceramico è tanto suadente da costituire una vera trappola per chi la pratica. Si è sempre tentati di conservare le porosità e le screpolature al taglio del filo, i grumi degli impasti, di assecondare le venature occasionali, le striature della mano, le tracce delle cinque dita, gli strappi e le lacerazioni così affascinanti.
E poi le affumicature del fuoco, i bei bruno-neri che rimandano alla fucina di un vulcano o ai primordi dell’umanità. Si può parlare così di ritorno alle origini, dei quattro elementi pre-socratici, di atto riconciliante con la terra, terra-madre come di un ventre in cui possano placarsi le angosce e le scissioni di un mondo al quale non possiamo chiedere le risposte ultime della vita. Ecco che la ceramica celebra i suoi fasti e l’iperbolizzazione della sua bellezza della sua intrinseca bellezza in una sorta di abbandono risarcente, nella piacevolezza di una alta cucina che soddisfa la parte più sensoria di noi.
Ma la ceramica non è solo questo. Può essere anche idea e problema che si materializzano, nello spirito di precisione, attraverso una costante elaborazione del materiale grezzo di cui si decantano le virtualità più appariscenti, restituendo alla ceramica la funzione dell’oggetto artistico.
Allora diventa limpida terracotta, chiara e sonante come una campana, cotta al punto giusto, lasciando al caso un margine molto ristretto dove inserirsi. E le tracce del manufare ridanno l’oggetto a se’ stesso, nel suo essere lì, pronto a provocare e sollevare interrogazioni sul come e perché è stato fatto.

(Nedda Guidi, 1988)

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